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CANTINE LONARDO. IL VINO DEL PROFESSORE.

PICCOLO E’ BELLO… MA PER DAVVERO.

Confesso che, più di una volta, mi è capitato di pensare che tutta l’attenzione posta da alcuni professionisti del mondo del vino sui piccoli vignaioli indipendenti, possibilmente anche “naturali” – in quanto a tecniche di produzione – ed “eroici” – in quanto spinti ad agire dalla pura passione e dal totale disprezzo per il volgare profitto – fosse, per lo meno in parte, dovuta ad un trend modaiolo che influenza i consumi del vino e non solo di quello a livello globale.

In pratica, sono arrivato a pensare, in un modo che riconosco essere alquanto malizioso e sconveniente, che qualche vignaiolo armato di vigne, tini e cantine non propriamente idonee a “produrre” un vino memorabile dal punto di vista qualitativo (o bicchierabile, che dir si voglia), fosse comunque in grado di trovare sbocchi sul mercato grazie al mantra del “sono piccolo, sono naturale e sai che c’è… sono pure eroico!”.

In effetti, a sentir parlare certi enotecari di alcuni piccoli, piccolissimi vignaioli indipendenti, che producono il loro vino abbarbicati su terreni impossibili da coltivare, dove osano solo le aquile e qualche imprudente critico enogastronomico, vengono alla mente le gesta di certi super eroi da fumetto che lottano contro il male supremo, in questo caso rappresentato dal vino convenzionale prodotto in grandi volumi con l’ausilio di tonnellate di robaccia chimica.

In certi casi, ti aspetteresti addirittura di trovare appesi in enoteca i santini dei vignaioli in stile Padre Pio, perché la devozione degli enotecari può essere davvero forte.

Quando però, per piccola produzione si intende la possibilità di avere una cura maniacale del dettaglio, di seguire il vino in tutto il suo iter produttivo, di sfruttare botti di piccole dimensioni in ambienti climatizzati, per poter davvero limitare al minimo l’uso dell’anidride solforosa e soprattutto di poter seguire il percorso dell’uva in vigna dalla A alla Z, allora può anche essere che i risultati si vedano per davvero e soprattutto che si sentano nel calice.

Ma qual è l’elemento che trasforma il neo-credo contemporaneo della produzione del vino del “piccolo e naturale è bello!” in un bicchiere di vino dai sentori netti e puliti e dall’estrema piacevolezza gustativa e non in un vino “sbagliato” mascherato da vino naturale? Eh sì, parliamo sempre di lui, ancora lui, più che mai di lui: il vignaiolo.

CONTRADE DI TAURASI

Se vi dovesse capitare di trovarvi in Campania, e vi venisse voglia di inerpicarvi sulle verdi montagne irpine, potreste imbattervi tra Avellino e Benevento nel paese di Taurasi, culla dell’omonimo vino a base di uve Aglianico noto in tutto il mondo.Taurasi

E da queste parti, potreste, per sfizio, entrare in uno dei numerosi bar o ristoranti ed ordinare uno dei prodotti enologici dell’azienda agricola Contrade di Taurasi dei Lonardo, gestita dall’omonimo professore, ex insegnante di lettere in pensione, che con moglie – professoressa di educazione tecnica – e figlie (una archeologa e l’altra ricercatrice biotecnologica) produce da circa trentanni (anche se la famiglia è nel business del vino dal 1700) un vino pluripremiato seguendo rigorosamente i dettami della viticoltura naturale su piccola scala produttiva.

Ci si potrebbe pure chiedere cosa c’entra una famiglia di professori e di ricercatori universitari con il mondo del vino. Ebbene, provando a degustare uno dei Taurasi Lonardo o il famoso “Grecomusc’” – un vitigno che stava scomparendo e che è stato recuperato grazie all’opera del professore, e di cui parleremo in seguito -, ci si renderebbe conto che la famiglia Lonardo può passare dal gessetto e dalla lavagna alla cantina senza alcuno sforzo e anzi con notevole beneficio per gli appassionati di vino.

Prof. Lonardo - Greco Musc' Burlesque

Il professore, con atteggiamento molto poco professorale e con schiettezza molto irpina, ci ha spiegato che il suo unico intento è produrre un vino di grande qualità, avendo come punto di riferimento in vigna le forme di allevamento delle viti tradizionali dei contadini della zona, che da sempre, per forza di cose – ovvero per limitatezza dei terreni messi a coltura -, adottano un’agricoltura intrinsecamente “biologica”, al riparo dalle tecniche produttive dell’agricoltura estensiva tipiche di altre zone d’Italia.

Lo stesso discorso vale per la produzione in cantina: “Mio nonno diceva che per fare un vino buono, bisognava seguire un unico, semplice principio, e cioè fare tutto in un unico ambiente di vinificazione, per evitare gli sbalzi di temperatura…”, ci racconta il prof. Lonardo. “E’ così che ancora oggi noi, grazie alla piccola scala della nostra produzione, in ambienti completamente climatizzati, riusciamo a ridurre al minimo l’intervento umano in cantina”.

L’azienda Lonardo, gestisce 4 ettari con una produzione che non supera dal punto di vista del rendimento, i 50 quintali per ettaro.

I VINI

L’offerta dell’azienda è costituita da un Aglianico DOC Irpinia (abbiamo assaggiato in anteprima il vino imbottigliato pochi mesi fa e vi possiamo rivelare che promette veramente bene!), il Taurasi, il Taurasi Riserva e due Taurasi Cru: il Taurasi Coste e il Taurasi Vigne d’Alto.

Il “Coste” viene da un impianto di Aglianico di Taurasi al 100% a spalliera di circa 40 anni, esposto a sud, con una resa di circa 40 quintali/ettaro, e una densità d’impianto di circa 1500 ceppi/ha.

Il “Vigne d’Alto”, è fatto con uve Aglianico di Taurasi al 100%, impianto di circa 70-100 anni, esposto a sud, in parte in barbatelle americane, in parte in piede franco, con una resa di circa 50 quintali/ettaro e una densità d’impianto di circa 1000/2000 ceppi/ha.

Per entrambi i Cru, così come per il Taurasi e per l’Aglianico, non ci sono grandi alchimie in cantina, ma pochi semplici (all’apparenza) passaggi, eseguiti con la massima attenzione: temperatura controllata dal momento in cui le uve arrivano in cantina al momento in cui esce il prodotto finito, fermentazione con lieviti autoctoni selezionati in vigna attivata mediante pied de cuve, macerazione sulle bucce da 15 a 30 giorni, fermentazione malolattica completamente spontanea, affinamento che può avvenire in legno per 24 mesi (per i Taurasi) oppure in acciaio con un 30% del vino che fa un veloce passaggio in legno (per l’Aglianico), ed imbottigliamento senza filtratura.

“Abbiamo 10 appezzamenti per l’aglianico: le uve vengono selezionate in vigna e lavorate in botti da 10, 20 o 30 quintali”, ci dice il professore. “Ogni due mesi assaggiamo il vino e facciamo una classifica da 1 a 5 stelle, mano a mano che prosegue l’invecchiamento. Quelle con il punteggio più basso vengono declassate ad Aglianico, le altre diventano Taurasi. L’Aglianico fa dai 6 mesi ai 2 anni di botte. Mentre il Taurasi fa più di due anni di legno”.

IL GRECOMUSC’

Il professor Alessandro e la professoressa Rosanna sono in vena e decidono di regalarci qualche piccola chicca anche sul Grecomusc’, un antico vitigno molto simile al Greco di Tufo che con la creazione della DOCG del Greco stava scomparendo, perché ovviamente non conveniva più a nessuno produrlo:

“Prima, tutti i contadini qui intorno avevano un appezzamento coltivato a Grecomusc’”, ci raccontano. “Lo utilizzavano per la produzione dello spumante ancestrale, e oltre al Grecomusc’ base – che ha ricevuto vari riconoscimenti tra cui “Vino d’Eccellenza” per la guida de l’Espresso –, siamo pronti a partire, dall’anno prossimo, con gli spumanti a base Grecomusc’, sia con il metodo classico che con l’ancestrale”.

 

In realtà, il Grecomusc’, non ha una parentela genetica diretta con il Greco di Tufo, ed è stato iscritto con il nome di “Rovello bianco” sull’elenco dei vitigni autoctoni italiani, grazie anche all’opera instancabile della famiglia Lonardo. Il nome dialettale Grecomusc’, deriva dal fatto che il chicco del Rovello ha una buccia che cresce a dismisura rispetto alla polpa, generando così l’inconfondibile aspetto di “uva moscia”.

Il professore aggiunge che esistono anche varie tesi di laurea sul Grecomusc’ e sull’impiego dei lieviti autoctoni campani per la valorizzazione di questo vino campano nonché dell’Aglianico, altra grande eccellenza vinicola della Campania. Naturalmente, dietro le pubblicazioni di queste tesi e la collaborazione con gli enti di ricerca scientifica, c’è il suo zampino anche se questo, per modestia, evita di dircelo esplicitamente. Ci tiene a puntualizzare però, che l’innovazione e l’investimento costante in conoscenza è alla base stessa del lavoro che loro fanno in cantina.

E quando ci parla di queste cose, così come quando assaggia il nuovo Aglianico e lo sente buono e promettente e vede compiaciuto che piace anche a noi, gli brillano gli occhi. Questo gli interessa molto di più dei premi, o del piazzare una bottiglia in più o in meno. Si capisce subito.

Ecco, forse oggi più che mai, se si vuole apprezzare fino in fondo un vino di un piccolo produttore, naturale, biologico, biodinamico che sia, vale veramente la pena conoscerlo di persona, il suddetto produttore, o se non altro conoscere un po’ della sua storia, delle sue motivazioni e del suo, perché no, eroismo, nell’affrontare le decisioni quotidiane che stanno dietro la conduzione di una piccola azienda vitivinicola in un’era dove si guadagnerebbe certamente di più con la standardizzazione dei gusti e con lo sfruttamento indiscriminato del territorio.

Dopo aver ascoltato la loro storia, a nostro modo di vedere, anche il loro vino, è molto più buono.

Posted on: Agosto 18, 2019, by :