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TRAVELLING WITHOUT MOVING

E se, per viaggiare, bastasse un calice di Cabernet Sauvignon?

Gli attuali quarantenni, ricorderanno senz’altro un disco, uscito più o meno quando avevano vent’anni[1], sulla cui copertina a fondo grigio, spiccava un fantasioso logo ispirato a quello della Ferrari. L’unica differenza stava nel fatto che, al posto del celebre cavallino, c’era la sagoma di un uomo con le braccia distese lungo il corpo, le mani sporgenti, e un copricapo con le corna di bufalo.

Quasi sicuramente, questo disco se lo ricorda anche chi non aveva vent’anni quando è sbarcato in Italia dal Regno Unito, perché è diventato l’album più venduto della storia del genere musicale funk.

Se tutti questi indizi, come dicono gli anglosassoni, “non fanno suonare nessun campanello”, allora non vi preoccupate (o comunque non troppo), perché vuol dire che magari a vent’anni eravate predisposti per altri generi musicali un po’ meno ballabili su cui credo sia meglio per ora soprassedere.

Se fosse questo il caso (ed eviterei comunque di raccontarlo troppo in giro, soprattutto alle persone a cui tenete particolarmente), non posso fare a meno di consigliare un ascolto del disco in questione tutto d’un fiato, perché era, e rimane, un album straordinario. Si tratta di “Travelling without moving” della band inglese Jamiroquai.

Io lo sto riascoltando proprio ora, e devo dire che mi costa non poca fatica tenere le gambe ferme sotto la scrivania e non andare a tirare fuori dall’armadio le mie Adidas Gazelle (o almeno quello che ne è rimasto dopo le serate battagliere dei vent’anni) per fare due salti su quello che, con il passare degli anni, è diventando sempre più di sovente l’unico dance-floor che calco: il parquet della mia stanza.

Se il lettore è stato sufficientemente indulgente e sta ancora leggendo questo post dopo un simile inizio, degno di un tremendo blog “nostalgic-musicale”, si starà a questo punto arrovellando con un dilemma degno di Gulielmo da Occam[2]: che cosa c’entra il disco dei Jamiroquai con un blog che dovrebbe parlare di vino?

Ci sono varie teorie su quello che intendesse il cantante Jay Key con “viaggiare senza muoversi”. Addirittura, qualcuno pensa che il leader dei Jamiroquai si sia ispirato al caposaldo della letteratura Sci-fi “Dune” di Frank Herbert, in cui il modo più utilizzato per spostarsi era quello di infilarsi nei buchi neri. Punti dove, anche secondo la teoria di Einstein, ci sarebbero delle “piegature” dello spazio-tempo che permetterebbero di viaggiare da una parte all’altra dell’universo a velocità istantanea, praticamente senza muoversi.

Altri si riferiscono all’idea che al cantante dei Jamiroquai piacesse usare un certo tipo di erba, che arrotolata in una cartina e fumata, pare possa in parte coadiuvare tale tipo di viaggio interstellare.

A prescindere da cosa pensasse Jay Key quando ha composto l’album, a me sembra che il concetto di viaggiare senza muoversi sia auto-esplicativo, indipendentemente da cosa si usi per viaggiare: sia esso il semplice e sobrio esercizio della fantasia, la marijuana, una dose massiccia di Acutil Fosforo o un bicchiere di vino.

Per quanto mi riguarda, l’ultima volta che mi è capitato di viaggiare senza muovermi, è successo proprio bevendo un bicchiere di vino.

Cabernet Sauvignon Saint-Estèphe
Cabernet Sauvignon Saint Estèphe Cru Bourgeois Exceptionnel 2011

L’occasione è stata quella di una degustazione di Cabernet Sauvignon organizzata dall’Accademia del Vino di Flavio Grassi a Milano.
La bottiglia che mi ha fatto decollare (solo con la fantasia, perché come è noto le dosi di vino nelle degustazioni sono per forza di cose limitate) è stata un Cabernet Sauvignon Saint Estèphe Cru Bourgeois Exceptionnel del 2011, che staccava per pregio e per prezzo un’altra serie di bottiglie di Cabernet Sauvignon (vedi sotto le bottiglie presentate in degustazione).

Eviterò (alla faccia di Occam) di fornire per filo e per segno i dettagli della degustazione, anche perché ritengo che, al di là degli schemi forniti dalle principali associazioni di sommelier e degustatori per aiutare i professionisti ad essere il più possibili equi e “distaccati” nella loro ricognizione del vino, cosa peraltro doverosa, ci sia sempre un elemento personale che fa propendere gli appassionati per una bottiglia o per l’altra.
Quanto tale predilezione si trasformi nell’assecondare lo straordinario potere evocativo del vino, dipende poi da una serie di circostanze.

Per esempio, nel caso di questa bottiglia di Cabernet Sauvignon di Bordeaux, che a mio avviso è risultata essere molto interessante a livello di rapporto qualità/prezzo (nell’ottica di un umilissimo tentativo di abbordare i vini francesi di quella zona che senza indugio molti considerano la capitale mondiale del vino e che, ça va sans dire, purtroppo spesso non sono alla portata di tutte le tasche), ha contribuito in parte sostanziale il racconto dell’ottimo Flavio Grassi, mentre si procedeva con la degustazione, la compagnia preziosa della co-fondatrice di questo sito e anche quella di un altro gruppetto di eno-curiosi presenti per l’occasione che fortunatamente non rientravano nella categoria degli eno-tuttologhi.

Senza muovermi, mi sono così ritrovato a perlustrare, con la fantasia, il Bordolese (che non ho mai visitato), mitica terra del vino, con le sue leggende, la sua storia e le sue contraddizioni.

Devo dire che viaggiare col pensiero alla velocità della luce (Jay Key dei Jamiroquai docet), ha degli innegabili vantaggi organizzativi e in poco tempo, si possono incontrare cinesi che investono milioni per acquistare le migliori cantine[3], grandi banche che fanno più o meno lo stesso, dispute legali.
Per esempio, quella relativa alla classificazione del “Cru Bourgeois” – a cui apparteneva per l’appunto anche il Cabernet Sauvignon Saint Estèphe che stavamo degustando -, annullata nel 2007 e riammessa nel 2010[4], la mitica classificazione del 1855 dei vini Bordolesi – la più antica -, riferita esclusivamente ai vini del Medoc, e stabilita sotto impulso dell’imperatore Napoleone III per presentare il top della produzione di vino francese in occasione dell’esposizione universale di Parigi di quello stesso anno.

Mi ha incuriosito, tra l’altro, che la classificazione del 1855[5], abbia generato sin da subito una forte controversia (ma allora non siamo solo noi italiani ad essere sempre così polemici?)  in quanto,  oltre ad essere rigida ed immodificabile, si riferiva principalmente alle qualità dei produttori e non alle zone di produzione, contraddicendo così un concetto molto caro all’enologia francese, cioè quello di terroir.

Ed è proprio il concetto di terroir, (e quindi non solo la qualità del terreno in senso stretto, ma l’interazione dei vari fattori produttivi, tra cui la vite, le caratteristiche fisico-chimiche del suolo, le condizioni climatiche,  ma anche le caratteristiche e i metodi di lavorazione dei viticoltori), che varia così tanto a seconda delle varie zone del Bordeaux, ad avermi stimolato le meditazioni da viaggio più clamorose (mi spingo a dire che alcune di queste, avrebbero inorgoglito persino lo stesso Jay Key dei Jamiroquai!).

E quindi, nel mio viaggio ad occhi aperti, ho visto l’estuario della Garonne, nel punto esatto in cui il fiume si getta nella Gironde.

Ho sorvolato l’Haute-Medoc, e planando in volo acrobatico sono passato a dare un’occhiata alle vigne dei paesi di Paulliac e di Margaux, perché i leggendari produttori a cui nella lista del 1855 venne assegnata la denominazione di Cru Classé, cioè “classificati”, a sua volta suddivisa in 5 livelli, stanno da queste parti.

Non so se nomi come Château Lafite-Rothschild, Château Margaux, Château Latour, Château Haut-Brion Pessac, e Château Mouton-Rothschild vi dicono qualcosa, ma, ecco, ne parlano un gran bene (essendo i 5 leggendari vini appartenenti al 1er Grand Cru Classè) e quindi mi pareva doverosa una visitina.

Mi è sembrato quasi di poter toccare il terreno, fatto di ghiaia e sabbia, con la sabbia che permette la ritenzione idrica per nutrire le radici, mentre la parte ghiaiosa consente il drenaggio dell’acqua in eccesso.

Già che c’ero, ho colto l’occasione per passeggiare lungo l’estuario della Gironda, costeggiando i numerosi canali che sono piste di decollo e di atterraggio per cormorani e aironi.
Lo scorrere lento di tutta quell’acqua, che se ne stava andando a finire nell’oceano atlantico (altro mitico ingrediente del terroir della zona), mi dava una sensazione di libertà e di spensieratezza.
Sentire la presenza dell’oceano nell’aria, provare ad indovinare qualcosa di marino annusando il vino. Immaginarsi le bottiglie stese a riposare nelle cantine polverose degli antichi château.

Questo è quello che intendo per viaggiare senza muoversi mentre si degusta un bicchiere di vino.

Certamente, uno degli aspetti migliori del potere evocativo del vino, è quello di farti immaginare la terra dove quel vino è stato prodotto e di farti desiderare di andarci, per controllare se quello che hai immaginato corrisponde anche minimamente alla verità.

È fantastico viaggiare senza muoversi. Direi che in alcuni casi è così bello che ci si può anche limitare solo a quello.

Scusatemi, però, se in questo caso particolare, è giunta per me l’ora di controllare quanto costano i voli per Bordeaux e di far finta di ignorare per un secondo che su youtube si può ascoltare tutto l’album “Travelling without moving” di Jamiroquai, senza sborsare neanche un euro.

cabernet sauvignon

 

Cabernet Sauvignon Degustazione
Le bottiglie di Cabernet Sauvignon in degustazione

[1] 28 agosto 1996.

[2]Gulielmo da Occam, frate francescano inglese vissuto agli inizi del 1300, è spesso citato per un principio da lui ideato che in molti ritengono essere una delle basi del pensiero scientifico moderno: il rasoio di Occam. Tale principio filosofico, in pratica suggerisce che il fatto di formulare più ipotesi del necessario per spiegare un fenomeno, cosa altrimenti nota con il termine di “cazzeggiare”, non sia solo inutile, ma purtroppo anche fuorviante, soprattutto quando evidenzia un tentativo dell’autore di dimostrare una sua presunta originalità.

[3] Jack Ma, fondatore di Alibaba (colosso cinese del commercio elettronico), ad esempio, ha strapagato nel 2016 l’acquisto del Château de Sour, un castello del XVIII secolo nella zona compresa tra la Garonna e la Dordogna (Entre-Deux-Mers), attorniato da 85 ettari di vigneti da cui si producono circa 500 mila bottiglie l’anno, sborsando senza batter ciglio ben 16 milioni di euro per una proprietà che a detta di molti ne valeva un terzo. Il motivo? Arrivare ad acquistare a breve 30 cantine e creare una piattaforma di vendita on-line di vino in Francia e nel resto del mondo. Lo so che ci avevate pensato pure voi, ma quando sei il fondatore di Alibaba e punti a raggiungere una base di consumatori di 2 miliardi di persone entro il 2020, non ci pensi più di tanto; lo fai e basta. http://divini.corriere.it/2016/02/27/vino-i-cinesi-comprano-30-cantine-a-bordeaux/

[4] Vi rimando a questo sito che ben spiega bene la querelle (che fondamentalmente è una questione di soldi (guarda caso): stare o non stare nella denominazione – creata nel 1932 -, ha avuto, a seconda dei periodi, un minore o maggiore ritorno economico per il produttore, ecc.) https://www.thewinecellarinsider.com/bordeaux-wine-producer-profiles/bordeaux/list-of-crus-bourgeois-classification/

[5]La classificazione comprende una suddivisione in 5 livelli, e cioè dal 1er al 5ème Grand Cru Classè. Alla prima fascia, appartengono solo 5 vini che contribuiscono a creare la leggenda di questo territorio (vedi più avanti nel testo). Alla seconda fascia appartengono altri 14 vini (pure questi mitici). La classificazione del Saint-Émilion è leggermente diversa: comprende i Premiers Grands Crus Classés (a loro volta suddivisi in categorie A e B) e i Grands Crus Classés. Invece le cose sono ancora diverse nel Pomerol, dove regna l’anarchia totale e il criterio di classificazione è molto vago.

Posted on: Luglio 18, 2018, by :